La metafora nel Seicento non costituisce solo una dichiarazione di poetica, ma una vera e propria visione del mondo. Dopo la rivoluzione scientifica (Copernico, Galilei, Keplero, Newton), infatti, l’umanità scopre di non essere più al centro del mondo, un mondo che fin dal Rinascimento credeva essere armonico e a misura d’uomo. I grandi scienziati come Galileo rivelano che la Terra non è che uno dei tanti pianeti che ruotano intorno al sole, un frammento perso in un universo privo di centro e in espansione. Decade completamente la gabbia rassicurante dei molteplici cieli geocentrici predicata da Aristotele e ripresa dal Medioevo. L’uomo per la prima volta percepisce il sentimento dell’infinito, che però non coincide più con Dio che vigila sopra di lui, ma con l’universo che lo circonda. Ciò crea al contempo eccitazione, perché finalmente ci si sente libero da ogni costrizione, ma anche angoscia, perché non c’è più un garante (Dio) che dia unità al mondo, che di per sé appare disarmonico, caotico e frammentario. Spetta dunque all’uomo stesso dargli un senso, unendo i frammenti sparsi. Gli scienziati compiono questa operazione trovando collegamenti tra i vari fenomeni grazie alle leggi della fisica e della matematica: l’universo “è scritto in lingua matematica”. (Galileo Galilei, “Il saggiatore”). In arte, il senso del mondo, viene indagato per mezzo della metafora. Anch’essa, come le leggi matematiche, istituisce legami tra elementi appartenenti a campi, almeno apparentemente, distanti e diversi fra loro (“trovando in cose dissomiglianti la somiglianza”, E. Tesauro).
Essendo ormai l’uomo a rendersi garante del senso del mondo, non c’è più una verità assoluta, ma vari tasselli che messi tutti insieme avvicinano ad essa: la scienza non può aspirare a verità assolute, bensì a parti di verità. L’attenzione si sposta, quindi, dall’universale al particolare: in arte questo nuovo gusto per i dettagli si traduce in un proliferare di elementi ridondanti, che danno un certo realismo alle opere, ma anche molta irrazionalità e disarmonia. Esse sembrano prive di senso, perché rispecchiano l’immaginario seicentesco che vede il mondo caotico e labirintico, privo di un centro e di una prospettiva univoca. Nel caso particolare della poesia, l’attenzione ai dettagli porta ad una frammentazione della donna amata, della quale vengono descritti solo i particolari sensuali, pretesti per acutezze e giochi di parole, come i capelli o il seno. Le poesie barocche sono caratterizzate da un vero e proprio cortocircuito di figure retoriche, che stabiliscono legami tra i vari frammenti della realtà. Il lettore deve, con la ragione, interpretare tali legami: l’attenzione non si focalizza più sui sentimenti, ma sulle acutezze e sui concettismi che provocano un piacere intellettuale.
Proprio per questo, la poesia dell’epoca può essere definita una poesia cerebrale, che stimola le sinapsi. L’unico desiderio dei poeti è quello di stupire (“è del poeta il fin la meraviglia”, Giambattista Marino) attraverso accostamenti apparentemente strampalati e il ribaltamento parodico dei grandi topoi letterari. Esempio clamoroso, dopo secoli dominati dalla donna-angelo, capei d’oro e claro viso,ecco che i poeti iniziano a lodare belle schiave e donne more e con la pelle scura: “Nera sì, ma se’ bella, o di Natura fra le belle d’Amor leggiadro mostro” (G. Marino, “La Lira”, III.10). Inoltre, la donna non è più spiritualizzata ed idealizzata, ma viene ritratta in scene di vita quotidiana (donna che cuce, che munge...). I sonetti di Marino, in particolare, possono essere considerati un buon esempio dell’immaginario e della poesia barocca, che mostra chiaramente come il petrarchismo e il dogmatismo rinascimentale siano un capitolo chiuso, parte di un’epoca ormai passata. Il Barocco, considerato sinonimo di “brutto artistico” (B. Croce), è stato a lungo e ingiustamente discriminato dalla scuola. In realtà l’arte del Seicento, esprimendo una visione del mondo, assurge a categoria universale dello spirito, luogo dell’ingegno e della libertà: “La vera regola è saper rompere le regole...” (G. Marino).